AUTOGESTIONE
(alcune considerazioni personali)
1. Penso che l’Autogestione (d’ora in poi abbreviata con una A.) sia realizzabile soltanto da gruppi relativamente ristretti (forse tra le 15, ma anche qualcuna in meno, e le 30 persone al massimo), e possono essere gruppi di varia estrazione (classi scolastiche, gruppi di lavoro, di ricerca, di studio, gruppi politici, religiosi, scientifici, pedagogici, artistici e quant’ altro.)
Ovviamente bisogna essere motivati per attuarla, disposti a modificare il modello abituale della gestione dei gruppi, della relazione con l’altro, il diverso, passando dalla “relazione verticale a quella orizzontale”.
2. L’essenziale dell’A. consiste nell’Abdicazione del Potere prevalente o esclusivo del Singolo a favore di un’equa distribuzione del potere tra tutti i partecipanti del gruppo, in parole povere:
– il docente non dirige, non gestisce più la classe, ma al massimo ne diventa il consulente;
– in un corso, un seminario, l’animatore non dirige più il gruppo, ma lo fanno tutti i partecipanti in tanto quanto collettivo, come co-partecipanti;
– nei gruppi di lavoro, per esempio di un’impresa, di una fabbrica, soprattutto se è di notevoli dimensioni, il potere viene distribuito equamente tra i delegati eletti dalle maestranze e gli imprenditori, e così via dicendo.
3. Si tratta di una Responsabilità condivisa, che ognuno deve assumere per il buon funzionamento del gruppo nel suo insieme, senza volerla attribuire a qualcuno in particolare, senza esigere che l’altro se l’assuma e se qualcosa non ci garba o non lo si trova adatto, funzionale, si tratta di esprimerlo, eventualmente di proporre delle alternative e non semplicemente di lamentarsi, magari in seguito, perché le cose non funzionano come si vorrebbe o si pensa che dovrebbero funzionare, quindi l’importante è di trovare semmai insieme agli altri delle chiarificazioni e/o delle soluzioni sostenibili.
4. Uno strumento fondamentale dell’A. è l’Analisi del Funzionamento che può essere impugnata da ogni partecipante in qualsiasi momento, per stabilire ciò che sta succedendo “nel bene o nel male”, affinché il gruppo ne possa prendere coscienza e decidere sul daffare, se proseguire nello stesso modo, elevando eventualmente il livello qualitativo o riaggiustando semplicemente la mira, modificando per esempio gli obiettivi e/o disponendo diversamente le modalità per raggiungerli.
Altri strumenti possono essere:
5. l’Ascolto e l’atteggiamento neutro nei confronti dell’altro, ossia nel non negare, valutare, giudicare il pensiero, l’atteggiamento, il comportamento altrui, oppure d’interpretarlo, ma semmai di contrapporre il proprio vissuto, il proprio punto di vista, la propria esperienza, ma pure
6. la Ricerca del consenso ottimale, per le decisioni e le operazioni che il gruppo intende intraprendere, quindi la priorità, l’importanza data al negoziato, alla collaborazione e non alla competitività, al voler primeggiare, all’ambizione personale tout court, o ancora
7. la Trasparenza, per cui i temi, i problemi vengono affrontati apertamente senza mezzi termini, senza doppi sensi, senza ambivalenza, senza mascheramenti.
Va sottolineato che in gruppi precedentemente gestiti in modo direttivo, il passaggio all’A. non è né facile, né comodo o scontato, perché si tratta di una modifica relazionale radicale che consiste tra l’altro nel rispetto dell’altro, nella non manipolazione a fini personali, nel non sfruttamento, nella non prevaricazione, nell’assenza di tentativi nel volerlo sottomettere ai propri punti di vista, ai propri convincimenti, i famosi “credo”, alla propria volontà.
8. Ci troviamo quindi di fronte a un apprendimento progressivo e un “pro memoria” occasionale per i punti principali inerenti a una corretta autogestione, perché è facile e direi perfino normale ricadere negli schemi direttivi, verticistici, strumenti per eccellenza delle dinamiche del potere concentrato in mano ad una o poche persone, ossia in quello delle oligarchie, modalità che ci rimanda a tempi per così dire immemorabili, quindi a un plurisecolare, plurimillenario “modus vivendi”, difficile da abbandonare, non fosse che temporaneamente per fare l’esperienza dell’A.
“Modus vivendi” d’altronde tipico per la modalità patriarcale.
9. Questa è un’esperienza che vale la pena di aver fatto o di fare in modo permanente, perché ci insegna di relazionale diversamente sia con il prossimo, ma anche con la Natura, la Vita in generale, vale a dire più umanamente e non secondo le leggi della rivalità, del più forte, queste ultime tipiche almeno in parte del regno animale, o dell’uomo primitivo.
Qui invece riappaiono, anche se timidamente, caratteristiche di tipo matriarcale.
Almeno è ciò che mi sembra di avere imparato praticandola…
* * *
So long, I am around…
Fine della breve “Monografia”
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